La necessità di differenziarsi passa anzitutto attraverso un racconto unico e dalle immagini che lo accompagnano. Creare una narrazione visiva coinvolgente è ormai un’esigenza imprescindibile in comunicazione, quasi fosse la tappa finale di un processo evolutivo.
Ne parliamo con Davide Bischeri, art director di Cru Stories.
Cosa significa fare visual storytelling oggi?
Fino agli anni Novanta abbiamo vissuto una fase di allargamento dei mercati che spesso ha voluto dire massificazione dei prodotti; negli ultimi 20 anni invece – complici i fenomeni di individualizzazione – siamo andati verso la ricerca dell’unicità.
A livello visual, le moderne tecnologie hanno reso la qualità una condizione necessaria ma non sufficiente. Anzi, potremmo dire che per arrivare alle persone mai come oggi sia importante l’umanità delle storie che raccontiamo. Sei d’accordo?
Assolutamente. La genuinità conta più dell’estetica, anche in virtù delle innovazioni tecnologiche. L’accesso “democratico” a strumentazioni prima in mano ai soli “esperti” è un fatto positivo e assodato : un buon fotografo con un cellulare di ultima generazione può creare contenuti visivi eccellenti. Aggiungo solo una cosa:
Le buone fotografie non bastano a creare una buona narrazione!
E qui, Davide, entriamo nel tuo campo e iniziamo a parlare di visual storytelling…
Esatto, e su questo la bravura e la tecnica del miglior fotografo non bastano. Raccontare un prodotto significa soprattutto estrapolare e reinterpretare i suoi valori. Il lavoro di branding che facciamo ex novo per un nuovo marchio è lo stesso che deve essere fatto prima di una nuova campagna. Si tratta di immedesimarsi nella filosofia del brand, capire cosa lo differenzia dagli altri e qual è il suo valore aggiunto.
Più il prodotto che abbiamo davanti è di alto livello, più la sfida è difficile. I brand più grandi, ad esempio, hanno ben chiara la necessità di differenziarsi, ma spesso hanno una narrazione così “autorevole” che diventa difficile reinterpretarla. Davide, hai qualche esempio che smentisce questa regola aurea?
Un caso positivo è stato il lavoro che abbiamo fatto con Marrone + Mesubim, che ci ha dato la fiducia necessaria a reinventare visivamente la loro immagine. Lo shooting è solo la parte conclusiva e tangibile di un lavoro che ci ha visto andare a Venezia, dove all’Hotel Aman di Palazzo Papadopoli è installata una cucina deluxe C3. Oltre alle foto “tecniche” per le riviste abbiamo creato una narrazione con lo chef Dario Ossola; poi siamo stati a Pordenone a scattare altre foto in cucina, prima di concludere con uno shooting a Modena… ma su questo non voglio spoilerare niente!

Per i brand“local” spesso il problema è l’opposto: dare valore all’unicità di un ambiente, di un piatto, di un modo di fare che a volte è quasi dato per scontato…
Il primo esempio che mi è venuto in mente è l’Osteria del Mare di Castiglion della Pescaia. Un locale genuino come i suoi proprietari, due motociclisti che hanno ricreato un’atmosfera davvero verace e inimitabile. È proprio il caso di dire che per fare visual storytelling siamo entrati nella pelle dei Clienti, visto che abbiamo deciso di partire… dai tatuaggi dei proprietari! L’affinità tra i polpi tatuati sulle braccia e quelli cotti in padella è stato lo spunto creativo per raccontare la loro autenticità.



Provo a chiudere con un’altra analogia, per vedere se ho capito cosa intendevi: possiamo dire che il branding è “pescare la storia” mentre lo shooting è cucinarla?
Esatto, il punto del visual storytelling è proprio questo! L’analogia tra branding e cucina è ottima… non a caso siamo su CruStories!
Quando parlo di “immergersi” nel brand intendo proprio respirarlo. Capire la sua unicità per poterla raccontare.
Sei stato chiarissimo Davide, grazie mille… però la prossima volta dovrai raccontarci del tuo shooting a Modena!
Ahahahah! Affare fatto!